FRA LE GENTI DELL'ULTIMA THULE

Storia e vita degli abitanti di Moriussaq: un paesino otre il Circolo Polare Artico.
TESTO DI DUCCIO CANESTRINI - FOTO DI BRYAN E CHERRY ALEXANDER
( tratto da AIRONE )


Presso gli antichi Greci si favoleggiava di una terra remota, perduta tra i ghiacci del nord. La chiamavano Thule: estrema, deserta. Sbagliavano ! Quella terra era ed è abitata. Ci vivono gli Eschimesi del nord-ovest groenlandese, per i quali un buon rapporto con la natura è la chiave della sopravvivenza.

Moriussaq


È BUIO PESTO. Da tre mesi, ormai. Il silenzio è tale che al viaggiatore, imbacuccato in folti strati di pelliccia, sembra quasi di sentire il rumore delle stelle. All'improvviso, nell'oscurità, avverte una presenza. "Inuhuarunai?", grida, "Sei un uomo?". Non c'è eco. La sua piccola nuvola di voce è già inghiottita dal ghiaccio. Panico. Se non è un uomo, è nanuk: l'orso bianco. Forse affamato. E allora il viaggiatore è spacciato. "Sono uomo", è la replica. Confortante ma un po' circospetta. Sarebbe inutile cercare di identificare l'interlocutore. A una domanda più diretta, come "Chi sei?", l'altro risponderebbe evasivamente: "Sono io", oppure: "Sono il figlio di un cacciatore". perchè il nome ha un'anima propria che sarebbe assurdo e pericoloso mostrare al primo sconosciuto che brancola nella notte polare.

Siamo letteralmente in capo al mondo. Più su di così non si può. I viandanti non lo sanno, ma sono entrambi di Moriussaq, un villaggio di baracche assediate dal ghiaccio, all'estremità nord-occidentale della Groenlandia. Più precisamente nel distretto di Thule. Il nome di questa regione ha un mito e ha una storia. L' "ultima Thule" è infatti la mitica terra dei ghiacci a cui Pitea, geografo della colonia greca di Marsiglia vissuto nel IV secolo a.C., diede nome dopo una spedizione verso nord, oltre lo stretto di Gibilterra. L'espressione fu poi resa celebre da un verso delle Georgiche di Virgilio. Ben quindici secoli dopo, in Groenlandia sbarcarono i Vichinghi, che vi fecero tappa per avventurarsi più a ovest, verso le coste canadesi. Passarono altri cinque secoli prima che il navigatore elisabettiano Martin Frobisher rapisse, nel 1577, un cacciatore eschimese per portarlo alla sua regina. Ma fu l'esploratore inglese John Ross, alla ricerca di un passaggio a nord-ovest verso il Pacifico, che s'imbattè negli Eschimesi della terra che, nel 1818, ribattezzò con il mitico nome di Thule. L'ultima, l'estrema. Erano uomini, quelli, che gli indiani americani Wabanaki e Cree chiamavano eskimantsik, da eski, "carne cruda", e mantsik, "mangiatori". Un'abitudine, quella di consumare crude diverse parti degli animali uccisi, che ha sempre caratterizzato gli indigeni polari. Quanto a loro, gli Eschimesi si definiscono semplicemene Inuit, come a dire "gli uomini". Anzitutto per distinguersi dagli altri animali polari. In secondo luogo perchè per migliaia di anni non è mai passato loro per la testa che oltre il mare Glaciale Artico, a sud, abitasse qualcuno.

L'incontro tra gli Inuit e il capitano john Ross ebbe dei risvolti comici. Dapprima quei cacciatori, sbalorditi, girarono le slitte e se la batterono. Poi tornarono, e chiesero a Ross da dove veniva: dal sole o dalla luna? Un marinaio riempì un bicchiere di vino. Loro ne furono strabiliati: come mai quel recipiente di ghiaccio trasparente non fondeva col calore della mano? Quanto all'orologio del capitano, che emetteva un regolare ticchettio a mo' di cuore, non poteva che essere qualcosa di vivo e dunque commestibile. Per gli Inuit di Thule un'altra data storica è il 1903, anno della prima visita lassù da parte del danese Knud Rasmussen. Affascinato dagli Eschimesi polari, Rasmussen dedicò il resto della vita alla diffusione e alla difesa della cultura degli Inuit. Sforzi che purtroppo ebbero un effetto boomerang, perchè‚ tutte quelle informazioni che Rasmussen andava raccogliendo e divulgando sollevarono tra i bianchi un devastante vento di curiosità. Gli attuali problemi della Groenlandia (l'alcolismo in primo luogo, gli inspiegabili suicidi, la minacciata estinzione di alcune specie animali) sono paradossalmente conseguenze dirette o indirette dei primi contatti con la civiltà dei bianchi.

a caccia L'ecologia non è mai stata una materia scolastica né una disciplina da studiare, per gli Eschimesi. Un buon rapporto con la natura era ed è semplicemente la condizione per la sopravvivenza. perchè‚ tra i ghiacci di Thule, la mera sopravvivenza richiede comportamenti estremamente equilibrati e razionali, e un'enorme capacità di rispetto e di adattamento all'ambiente.

Nel teatro del freddo e della fame da 4.000 anni circa (così provano i reperti archeologici dei primi Eschimesi venuti dall'Asia attraverso lo stretto di Bering) si svolge la commedia umana di questa gente. Sono uomini come noi, ma la natura, dopo mille e mille repliche di quel copione di azioni quotidiane, li ha un po' favoriti.

Un pò di grasso protettivo, isolante e di riserva sotto la pelle, in particolare sulle guance e sulle palpebre. Una fitta rete di capillari alle estremità delle dita, per permettere un maggior afflusso di sangue alle parti più soggette al congelamento. E poi, essenziale per la caccia, una vista straordinaria.

Se ne accorse per primo un oculista danese (Avanersuup Kommunia) in visita a quella ex-provincia coloniale (divenuta indipendente dal 1980) chiamata Thule. Gli Eschimesi polari decifravano senza alcuno sforzo le lettere più piccole, in basso a destra della sua tabella. Con una piccola variante: da una distanza doppia rispetto a quella regolare.

Chi ricorda il dramma di Dersu Uzala, il cacciatore siberiano del celebre film di Akira Kurosawa condannato a morire nella tundra per una semplice miopia, sa quanto siano preziosi gli occhi per il cacciatore. Quello che campa cacciando. Del resto, non esistevano certamente gli occhiali in Europa quando già gli Eschimesi polari li usavano da un pezzo. Occhiali da sole, per l'esattezza: riflessa dal ghiaccio e dalla neve la luce del sole è come un abbacinante fascio di aghi d'argento e può addirittura accecare per diversi giorni.

A volte la posta alla foca, cioè ai pertugi nel ghiaccio che le permettono di salire a respirare, può durare ore. Così per questo tipo di caccia, che si chiama maupòk (cioè "egli attende") e che gli Eschimesi hanno imparato dall'orso bianco, gli Inuit hanno inventato "lenti" d'osso o di legno, leggere, appena fessurate; quel tanto che basta a riparare gli occhi dalla terribile rifrazione e a scorgere la preda mentre fa capolino dal buco.


orso e volpe I mammiferi marini restano, ieri come oggi, la risposta al freddo e alla fame. Il grasso della foca groenlandese e della foca dagli anelli, del tricheco e del narvalo funge da combustibile e da alimento. La loro pelle da corda, da coperta e da tetto. La loro carne da pasto quotidiano per la famiglia e per i cani. Il loro sangue da minestra. Per quanto crudele possa sembrare, in un mondo in cui la preda ferita può scivolare per sempre sotto il diaframma di ghiaccio della banchisa, il primitivo arpione resta lo strumento di caccia più funzionale. E in un certo senso più ecologico. Oggi una legge groenlandese regolamenta la pesca del narvalo, il balenottero "cornuto" dei mari artici, e la consente solo se praticata prima con l'arpone. La fucilata servirà, si, ma per il colpo di grazia.

Troppe stragi ha consentito il fucile. Basti pensare che qualche anno dopo l'immissione di alcuni Winchester tra le tribù eschimesi della Groenlandia, il caribù scomparve dalla faccia dell'isola. Tanto che negli anni Venti si dovette procedere al reinserimento di questa specie di renna nell'ecosistema degli Eschimesi polari. Il fucile ha anche facilitato enormemente il massacro di volpi artiche, di foche e di orsi, le cui pellicce hanno fruttato agli Eschimesi un oscuro oggetto di desiderio: il denaro. Denaro che a loro serve poco (provate a immaginare: come spendereste 2.000 dollari a Moriussaq?), ma che ha causato una sconcertante rivoluzione nell'antico sistema economico fondato sul baratto.

La mappa dell'occidentalizzazione, tuttavia (che forse in questo caso dovremmo chiamare meridionalizzazione), cioè il tasso di modernizzazione degli Eschimesi groenlandesi vede per ultimo proprio il distretto di Thule. Qui la vita è più o meno quale era un tempo, quando in Europa Cesare combatteva contro i Galli.

All'inizio dell'estate la famiglia eschimese lascia la baracca in pietra di ardesia, costruita dagli antenati, per andare all'avventura, in tenda. Questo trasloco stagionale è una specie di pulizia primaverile in cui l'intera famiglia si sposta, invece di spostare l'accumulo della sporcizia invernale. È l'unico periodo dell'anno in cui moglie e figli aiutano il capofamiglia nella caccia. Gli stormi di gazze marine e di edredoni sono allora saccheggiati con canestri montati su lunghe aste. È una specie di pesca alla rovescia, quella agli uccelli, con le reti per aria anzichè per mare.


pesca alle gazze Se la caccia è stata buona, la padrona di casa previdente preparerà il kiviàq, una leccornia che prima di essere consumata richiede qualche mese di macerazione. Questa pietanza cerimoniale, che spesso è anche un dono di nozze e di Natale, è semplicemente una foca intera vuotata delle interiora e rimpinzata fino all'orlo di gazze marine con tanto di becco e penne. Nascosto il tutto in qualche anfratto roccioso, il gelo, il grasso sottocutaneo della foca e la lenta decomposizione degli uccelli faranno il resto, dando alla pietanza il caratteristico gusto acre.

Autunno, e il sole scivola giù. È quasi un addio. La frenesia si impadronisce degli Inuit, perchè i primi giorni di semibuio sono i più preziosi. Foche e trichechi hanno un solo problema: mantenersi aperte alcune prese d'aria nel ghiaccio, che come una morsa incalza e serra la superficie del mare. Anche i mammiferi marini sono frenetici in questa occupazione, così dimenticano la prudenza. È in autunno che il cacciatore fa man bassa. Nei quattro giorni seguenti alla scomparsa del sole dall'orizzonte, un uomo può uccidere anche 15 foche, e ogni foca basta per tre pasti a una famiglia di quattro persone e per un pasto a una muta di 10 cani. Accumulare provviste per l'inverno è l'unica garanzia di rivedere il sole in primavera. Perchè l'inverno polare non perdona.

foche I cani condividono con il padrone l'entusiasmo per la predazione: fare una buona scorta di carne conviene anche a loro. Durante i primi mesi di vita, i cuccioli sono nutriti amorosamente e anche portati in casa. Non è raro vedere un bambinetto eschimese giocare con un cucciolo al guinzaglio, menando una stringa: l'imitazione in scala minore della lunga frusta in pelle di foca del papà. Gli adulti assecondano questo gioco. Il cucciolo d'uomo e il cucciolo di husky imparano così il loro ruolo futuro. Dopo lo svezzamento gli husky restano all'aperto giorno e notte e sono trattati duramente. Da cani, come si suol dire. L'addestramento si basa sulla imitazione: i giovani vengono legati alla slitta assieme ai vecchi e imparano a distinguere i comandi e a obbedire. Il capobranco è attaccato in testa, circondato dalle femmine e seguito dai più indisciplinati, vicini alla slitta e a portata di frusta. Ma i deboli e i ribelli non hanno vita lunga. L'Inuit non può assolutamente rischiare: dai suoi cani dipendono la sua stessa vita e l'intera economia domestica. Ogni famiglia nasconde una tragedia. Inverni di carestia, antenati morti di fame, cacciatori annegati, fratelli dispersi, bambini morti di freddo. La fame non è appetito. Quando le provviste non bastano, nella gelida oscurità dell'inverno polare si mangiano le pelli di foca che fanno da coperte. Non bastassero, si bollirà la frusta. Poi toccherà al grasso combustibile della grande lampada di pietra, o di latta, in cui pesca lo stoppino di lichene. Al buio anche in casa, consumato tutto il grasso, si profila la rovina. Cinghie, guanti, guarnizioni della slitta, tutto diventa commestibile in un mondo dove tutto viene dagli animali. Infine, i cani. 0 anche peggio. Nelle leggende eschimesi, nei racconti di famiglia, persino negli insulti peggiori che il linguaggio degli Inuit conosce, aleggia uno spettro: il cannibalismo. Ma non è che una cupa memoria del passato. Oggi l'inverno è reso più mite dal té, dai biscotti e dalle caramelle dello spaccio, e nessuno è più ridotto alla fame. Il problema casomai è la carie dentaria, sconosciuta fino a qualche decennio fa. L'inverno è anche il momento in cui l'arte femminile della sartoria si sbizzarrisce in piccoli capolavori che conciliano l'estetica con la funzionalità. Mentre la madre asporta il grasso residuo dalle pelli di foca, la bambina di cinque anni inizia a masticarne altre per renderle più morbide nelle parti dove andranno cucite. Per il resto della vita ripeterà questa operazione fino a consumarsi i denti e le gengive. Il filo per cucire è fatto in casa, con i tendini del narvalo. È davvero il miglior filo che ci sia perchè, quando è bagnato, si gonfia e ostruisce i fori. Ogni eschimese, quanto al suo abbigliamento, è uno zoo ambulante. Pantaloni di orso polare; cappuccio di volpe artica; mutande e stivali di foca; morbide canottiere in piuma d'oca o di edredone, e calze di pelle di lepre bianca.

igloo Dopo un inverno di reciproci inviti e di cortesie tra vicini di casa, ecco finalmente strisciare all'orizzonte un rosso raggio di sole, debole araldo di un'agognata primavera. Sarà un giorno di soli dieci minuti. Domani di venti, dopodomani di mezz'ora. Sedna, la dea degli animali e delle acque che vive in fondo al mare, pungola allora foche e trichechi (mammiferi che nel mito eschimese sono le sue dita) e li incita a salire sul pack, a giocare e a sdraiarsi nei primi raggi di luce. Il cacciatore Inuit ringrazia la dea per la sua benevolenza e corre a prendere l'arpione. Se la furia del vento lo coglierà tra le dune di neve, mentre lontano da casa insegue la preda, il cacciatore segherà con un lungo coltello una trentina di blocchi di neve compatta. L'igloo sarà pronto in un'ora e al suo interno la temperatura salirà di qualche grado sopra lo zero. I mattoni di neve, fondendosi un poco, si coprono di un'isolante pellicola di ghiaccio. Il cacciatore accende una lampada a olio di foca, si stende sulla folta pelliccia di Nanuk e attende tempi migliori. Fuori sono 40 gradi sotto zero.

Fame e freddo, l'incubo sempre incombente del ghiaccio che a un tratto si rompe sotto i piedi e t'inghiotte, o del disgelo che ti lascia impantanato in una poltiglia di mare trasformando la slitta in una zattera... Eppure a Thule gira un impertinente buon umore perchè la filosofia eschimese non lascia spazio all'autocommiserazione: loro, gli Inuit, sono pur sempre i più coraggiosi, i più furbi, i più nordici.

Si, esploratori polari ne hanno conosciuti e accompagnati molti. Senza tuttavia capirne l'ansia di scoperta, la smania di poter dire ho messo il piede là dove non c'è nessuno. Nel raccontarsi i dettagli di quelle spedizioni gli Inuit sono impietosi. "Ti ricordi di quello che non sopportava l'odore dei cani e voleva mettere un telo di plastica trasparente davanti alla slitta?". E giù risate. Né risparmiano gli scherzi. Il tiro più divertente forse resta quello architettato ai danni di un famoso esploratore polare (di cui, come per saggia precauzione Inuit, taceremo il nome), talmente imbranato che non riusciva nemmeno a smontare la sua tenda né a sfilarsi gli stivali. Un bel giorno le sue guide eschimesi cominciarono a scavargli la fossa: era perduto, così non poteva sopravvivere, si doveva rassegnare. Solo quando il disgraziato avventuriero, ormai in preda al panico, manifestò i sintomi di una crisi isterica, gli uomini di Thule, tenendosi la pancia dal ridere, gli dissero la verità.
Serviva una buca per le immondizie.


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